martedì, 26 Settembre, 2023

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Sindrome post Covid: il rimedio non è un vaccino

Sindrome post Covid, se ne parla tanto e ovunque e anche l’OMS, in seguito agli effetti della pandemia, non parla più tanto di PIL, ma di benessere delle persone come indicatore più significativo: niente è più lo stesso da quando questa infezione e i suoi postumi hanno cambiato il volto della storia delle malattie infettive.

I tempi continuano a cambiare, lo scenario lo ha rubato una drammatica guerra combattuta con missili e carri armati ma il tanto desiderato ritorno alla normalità dovrà essere profondamente rivisto anche sul fronte sanitario nel suo significato più profondo per costruire nuove fondamenta del futuro.

La pandemia da Covid-19, sta, nei fatti, determinando anche un aggravamento della salute mentale delle persone: sia di chi il Covid l’ha avuto ed è guarito (Long Covid-19 Tail), sia della maggioranza delle altre persone che indirettamente hanno vissuto e continuano a vivere questo stato di sospensione, di ansia, apatia, diffuso senso di smarrimento e diffidenza.

Queste sono le sensazioni più condivise dall’inizio della pandemia; ulteriori tensioni sono state innescate dall’incessante e complesso dibattito con tutte le polemiche annesse al tema dei vaccini che hanno diviso la società in due fazioni (Sì e No-Vax). Per gli effetti della pandemia sulla salute, le abitudini sociali e l’economia mondiale si deve ormai fare i conti con una sindemia: si stima in 10 miliardi il costo totale solo per il trattamento delle sindromi depressive generate dalla pandemia che sono passate dal 10 % al 30%, secondo gli studi pubblicati dalle riviste scientifiche in Italia e all’estero.

Un altro aspetto da considerare è che la presenza di un evento, imprevisto quanto repentino nel suo decorso, come è stata la diffusione del coronavirus ha completamente stravolto tutte le organizzazioni sanitarie e sta rendendo il lavoro dei professionisti sanitari un mare quasi sempre in tempesta in cui il consueto carico di stress sta salendo a livelli estremi. In un contesto di pressione lavorativa straordinaria, su tutti i fronti, in cui si sono dovuti fare i conti con assenze improvvise, cambi turno o ritardi per emergenze di servizio, si sono aggiunti paura, incertezza, stanchezze inenarrabili, senso di frustrazione, impotenza.

Gli operatori sanitari e sociosanitari sono sottoposti quotidianamente allo stress: oltre ad affrontare difficoltà organizzative e relazionali proprie dei contesti lavorativi aziendali, troppo spesso caratterizzati dalla scarsità di risorse ambientali e dal breve tempo a disposizione, sono chiamati sia ad interfacciarsi con gli altri operatori della salute, sia a confrontarsi con la sofferenza dei pazienti e spesso con l’ombra della morte.

La pandemia, per di più, ha trasformato atti semplici e ordinari, come entrare in ospedale, timbrare, indossare le divise, acquisire e condividere informazioni, riformulare le priorità, in vere e proprie battaglie, fisiche ed emotive. Ogni gesto, rivolto a tutelare sé stessi e le proprie famiglie dalla diffusione del contagio, ogni pratica diagnostica e assistenziale, rivolta al contenimento della diffusione e alla cura dal virus, hanno obbligato il professionista a formarsi, in fretta, e a rivedere abitudini e prassi di lavoro che riteneva ormai consolidate.

Tutto questo, insieme all’ulteriore stress derivante dalla vita privata, rischia di diventare combustibile del cosiddetto “burnout”, una vera e propria sindrome di esaurimento emotivo con conseguente depersonalizzazione e de-realizzazione, che possono sfociare in atteggiamenti di assenteismo, distacco, indifferenza e perdita di motivazione. Nonostante i dati, sempre secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute mentale è una delle aree più trascurate dell’agenda pubblica. Per questo, l’OMS ha iniziato a dare indicazioni su alcuni comportamenti da adottare per migliorare il benessere psicofisico di tutti, cittadini e professionisti sanitari; fra questi suggerimenti ha inserito l’attività sportiva e la mindfulness.

La condizione è: se non si può cambiare immediatamente la realtà, si può però cambiare il rapporto con le emozioni che destabilizzano e la rendono ancora più difficile da gestire. La Mindfulness ed i protocolli basati su di essa costituiscono, come testimoniato da svariati studi presenti in letteratura, una preziosa risorsa contro il burnout, in particolare degli operatori sanitari.

La pratica di Mindfulness, principalmente quella legata allo sviluppo dell’attitudine di compassione, riduce l’ansia e la depressione, come pure alcuni parametri oggettivabili connessi allo stress, quali la pressione arteriosa ed i livelli di cortisolo, contribuendo, di conseguenza, ad aumentare il benessere degli operatori e la loro capacità di gestire le situazioni stressanti, con l’importante risultato di migliorare l’efficacia degli interventi sanitari.

Se è importante, per ogni lavoratore, prevenire e ridurre lo stress, per un Operatore Sanitario diventa fondamentale, in quanto, tutelare la propria salute, oltre ad essere un diritto, è anche un “dovere” verso gli altri: una migliore qualità della vita lavorativa degli operatori, corrisponde una migliore qualità delle prestazioni erogate.

Attraverso la mindfulness, ed in particolare quella che viene chiamata mindful compassion, si impara ad “accendere” il “sistema calmante”, le cui caratteristiche sono un senso di appagamento, sicurezza e connessione. Il “sistema calmante” una volta attivato tende a regolare l’attività degli altri due sistemi, quello della “minaccia” e quello della “bramosia”.

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