Il magistrato Nicola Gratteri, al festival “Il libro possibile” tenutosi a Vieste il 29 luglio scorso, ha affermato che i detenuti che finiscono di scontare la propria pena devono uscire dal carcere meglio di come sono entrati, per rispetto all’articolo 27 della Costituzione che recita:
«[…] le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte»
Non è ammessa la pena di morte. Eppure, in carcere, o meglio di carcere si muore: non si tratta di morte naturale, ma di suicidi e atti autolesionistici compiuti dai detenuti delle carceri italiane. I dati parlano chiaro: da gennaio 2022 ad oggi, sono più di 80 i casi di suicidio registrati, molti dei quali a pochi mesi dall’estinzione della pena. Dati che fanno pensare, che lasciano delusi e amareggiati. Una domanda sorge spontanea: si poteva fare qualcosa per salvarli? Nella stragrande maggioranza dei casi la risposta è sì; eppure, ancora troppo spesso, accedere a cure psichiatriche o colloqui psicologici sembra essere un miraggio, un lusso concesso a pochi. È per questo che nelle carceri italiane la salute mentale è una delle più gravi emergenze esistenti: la fine dei rapporti con il mondo esterno, la debolezza, la paura, la solitudine pesano sulla coscienza del carcerato molto di più di qualsiasi pena e la totale assenza di aiuto rende il tutto ancora più difficile da affrontare.
Il carcere, come il manicomio, esala morte già solo vedendolo dall’esterno. Come un enorme trofeo fatto di calce e mattoni, è chiamato a celebrare tristemente il potere della morte. È una morte quotidiana e atroce quella a cui i detenuti sono condannati: giorno per giorno, lentamente, gli individui vengono de-soggettivati, la loro mente e il loro corpo de-sensorializzati. Non sono più persone, non sono più esseri viventi, sono abbassati alla condizione di totale inesistenza: per loro la vita è assenza di vita. E questo non riguarda solamente la perdita di controllo su corpo e mente ma anche, e soprattutto, l’ingabbiamento di sentimenti, emozioni, slanci vitali e pulsionali: la sofferenza che ne deriva viene proiettata, da chi ne sopravvive, anche al di fuori dello spazio/tempo della prigione.
I propositi di suicidio aumentano considerevolmente nel momento in cui il soggetto subisce la perdita delle sue funzioni abituali e percepisce la brutalità di vivere in un presente privo di progetti realizzabili e, di conseguenza, privo di qualsiasi futuro. Il suicidio diventa, allora, l’ultima, estrema possibilità di riappropriarsi di quella libertà sottratta: si è detto che lo Stato non prevede la pena di morte. Siamo allora dinanzi a un paese fallimentare, incapace di garantire a tutti le condizioni necessarie per la propria sopravvivenza. La risposta delle istituzioni al problema consiste nell’aumento di controlli da parte delle autorità preposte, senza capire che proprio il controllo è motivo di annientamento personale.
Bisogna agire, piuttosto, creando ambienti sani, in grado di restituire alla persona la libertà sotto ogni punto di vista. Proprio al fine di aiutare i detenuti a riappropriarsi di loro stessi e recuperare frammenti della propria coscienza nasce il Gruppo della trasgressione che, a partire dal 2003, sotto la guida del dott. Luigi Pagano, al tempo direttore di San Vittore, svolge funzioni di Peer support (letteralmente “supporto tra pari”) nelle celle maggiormente a rischio. Ai detenuti vengono proposti progetti e offerti lavori che consentono loro di valorizzare il proprio capitale di conoscenze grazie al supporto e alla collaborazione con le autorità istituzionali. Qualsiasi progetto diventa un’ottima fonte di prevenzione per il suicidio e un buon antidoto alla rabbia incendiaria.
Risultano sempre più in maniera evidente le lacune delle istituzioni penitenziarie rispetto al tema della salute mentale. Quello che si tende a prediligere è il ricorso, per i detenuti che mostrano di soffrire di disturbi psichiatrici, a metodi punitivi del tutto inadatti alla riabilitazione del paziente e al corretto trattamento della problematica di cui soffre.
Come messo bene in evidenza dall’OMS, a livello Europeo un detenuto su tre soffre di disturbi mentali; troppo spesso, tali disturbi rappresentano la più comune causa di morte per suicidio. Le ricerche dimostrano, nello specifico, che oltre il 50% delle 60mila persona private di libertà soffre di una patologia mentale, un numero molto più elevato rispetto a chi è fuori. Causa primaria sono le spaventose condizioni detentive delle carceri italiane. Ecco perché la malattia mentale va curata, se necessario, fuori dal carcere e con il supporto sanitario necessario. La riforma in questione riguarda tuttavia solo chi ha pene inferiori ai 6 anni e una patologia psichiatrica grave.
Ecco allora che si pone un’altra sfida: il necessario potenziamento dei Dipartimenti di Salute Mentale. La speranza è di portare a casa la vittoria, trasformando questo miraggio in concreta e solida realtà.