L’8 novembre ricorre la giornata mondiale della radiologia. Dopo l’intervista a Guido Addonisio, primario dell’Usl 4 del Veneto orientale ora sentiamo Manuel Signorini, specialista in senologia. Due medici radiologi che parlano di radiologia sul web. Giancarlo Addonisio è primario dell’AUSL4 del Veneto Orientale e autore del blog unradiologo.net, punto di riferimento per un’intera generazione di specialisti.
Manuel Signorini, invece, è tra quelli che da unradiologo.net hanno tratto “conforto e ispirazione”, come ci confida il dottore stesso, che, ai tempi della specializzazione, ha avuto modo di leggere e apprezzare una piccola “guida alla sopravvivenza”, stilata proprio da Addonisio. Specializzato in radiodiagnostica Signorini ha recentemente scelto di dedicarsi alla radiologia senologica, ma su Instagram condivide pillole e casi clinici ad ampio spettro, con il suo profilo @the_beachdoctor.
Radiologia: cosa crede sia cambiato negli ultimi 10 anni?
“E’ cambiato tutto e la pandemia ha ulteriormente accelerato un processo già in atto informatizzando completamente la radiologia. Tuttavia, la pandemia ha avuto anche un impatto umano sulla professione, andando ad accentuare la differenza tra quelli che io definisco il radiologo visibile e non visibile. Per me, il medico radiologo dovrebbe coniugare e bilanciare la professionalità con l’aspetto umano e l’empatia, per cui chi durante la pandemia ha risentito della mancanza di un rapporto umano col paziente ha percepito il bisogno di correre ai ripari. D’altra parte, il covid è stata la spinta definitiva per iniziare a parlare di teleradiologia anche in Italia. Si è aperto un bivio: da un lato c’è chi cerca, comunque, un rapporto col paziente, al pari di un medico clinico, dall’altro c’è il radiologo refertatore”.
Si parla sempre più spesso di Intelligenza artificiale. Cosa pensa sarà in futuro la radiologia e quale sarà il ruolo del medico radiologo?
“Ho seguito il corso monotematico in occasione del Sirm qualche settimana fa ed è un tema che spinge a fare una sincera riflessione. Sicuramente l’alto costo di avvio e gestione dell’AI attualmente la rende accessibile solo a poche realtà, in Italia. Ho maturato alcune considerazioni in merito ma sono sicuro che non andrà a sostituire la figura professionale di tecnico e medico radiologo quanto ad affiancarli e a ridurre il carico di lavoro. Nel caso del tecnico di radiologia l’AI potrebbe essere in grado di valutare lo spessore e la densità dello strato, ad esempio, andando a calibrare automaticamente la dose più consona ottimizzandola in base al paziente. Tuttavia il tecnico rimarrà la figura che fa da garante per l’esecuzione dell’esame, anche, banalmente, per una questione medico-legale. Allo stesso modo, il medico radiologo potrebbe essere affiancato da software dedicati che magari possano segnalare un’urgenza tra mille esami eseguiti. Penso ai ritmi in una radiologia di pronto soccorso: decine e decine di esami eseguiti ogni ora. Ecco, l’AI potrebbe andare a segnalare l’urgenza di un esame rispetto ad un altro. Si andrebbe a costituire una sorta di secondo triage. Allo stesso tempo l’AI si è dimostrata un valido supporto nello screening senologico. Attualmente, lo screening si basa sulla refertazione di due diversi medici radiologi, non in contatto tra loro. È stato dimostrato che, ad oggi, l’intelligenza artificiale è in grado di produrre risultati, in termini di specificità e sensibilità, perfettamente sovrapponibili a quelli di un medico radiologo con 5 anni di esperienza in radiologia. È molto probabile che l’AI andrà ad affiancare un solo medico radiologo nello screening o che funga da arbitro: se solo uno dei due medici segnali un’anomalia, l’AI potrebbe avere il compito di determinare se è il caso o meno di passare ad un secondo livello.
L’ultima considerazione che faccio è legata alla mole di lavoro: abbiamo detto che l’AI potrebbe dimezzare il carico, e quindi, cosa succederebbe? Si corre il rischio creare medici e tecnici disoccupati?A mio parere no, piuttosto si andrebbe a creare un varco per l’implementazione della radiologia interventistica, non più strettamente legata all’intervemtistica vascolare, come la conosciamo oggi, ma anche oncologica con un approccio microinvasivi. Ad oggi queste applicazioni, ancora poco implementate in Italia, richiedono l’ausilio di apparecchiature radiologiche, che, ricordiamolo, legislativamente possono essere gestite solo da personale specifico: medico e tecnico di radiologia. In un prossimo futuro, complice l’AI, potrebbero trovare ampia applicazione, andando a coinvolgere sempre più personale”.
La radiologia è considerata una branca piuttosto “distaccata” nei confronti del paziente.Crede nella medicina narrativa? E secondo lei, la radiologia ha bisogno di implementare questo aspetto? Possono i social giocare un ruolo in questo?
“Personalmente, ho sempre cercato di implementare le mie capacità empatiche, allenarle, perché non mi sento a mio agio nelle vesti di medico radiologo refertatore.La nostra professione sta cambiando: come dicevamo anche prima in merito all’AI, per una serie di motivi, anche economici, si referta sempre di più e sempre più in fretta, e questo lascia spazio a nuovi sbocchi per la professione, come l’interventistica oncologica, attraverso la crioablazione, la termoablazione e altre procedure alle quali ci stiamo aprendo ora, in Italia e in Europa, e che richiedono il medico radiologo. Bisogna che la radiologia riconosca e prenda un ruolo attivo nell’azione sul paziente, che gli spetta di diritto, e sarà fondamentale l’interazione del professionista col paziente.
Per mia personale esperienza, sono un grande sostenitore della medicina narrativa. All’inizio, temevo molto il momento della diagnosi, col tempo e con l’allenamento, ho imparato ad essere franco, ma non brutale e ad avere l’attenzione di accompagnare il paziente verso la diagnosi. Ho imparato a parlare con i pazienti e credo che anche nel prossimo futuro, si parlerà sempre più spesso di medicina narrativa.
Purtroppo questo è un aspetto che viene molto sottovalutato a livello di formazione universitario: un po’ perché si crede che l’empatia e la solidarietà verso il prossimo sia un dono innato e non invece una caratteristica che può (e deve!) essere implementata. Le nostre università sono concentrate, come è giusto che sia, molto sulle competenze, ma poco sul rapporto col paziente. Nel mio percorso universitario, non ho ricevuto gli strumenti per sviluppare e implementare tecniche legate all’empatia e alla comprensione di emozioni e sentimenti della persona che ho davanti. È una cosa che ho appreso in un secondo momento, in autonomia.
Poi, per quello che è la mia esperienza, i social sono uno strumento potentissimo, per interagire ed anche educare il paziente.Ricordo un episodio di qualche tempo fa, avevo condiviso un caso clinico, nello specifico una neoplasia dello stomaco, chiedendo ai miei follower di riconoscere il problema. Mi contattò una donna, dicendomi che aveva riconosciuto subito la patologia perché ne aveva sofferto un suo caro, e che non aveva apprezzato la mia scarsa sensibilità nel condividere questo tipo di immagini. Spiegai alla signora che lo scopo di quel mio post era di condividere con altri addetti ai lavori un aspetto tecnico della mia professione. Le spiegai, insomma, che il mio interesse era insegnare a riconoscere quel tipo di immagini e che garantivo l’anonimato del paziente. La signora non faceva parte del mio pubblico di base, cioè studenti o professionisti che seguono il mio profilo perché interessati al mio lavoro e ai miei contenuti, ma fu per me una grande occasione di confronto. Alla fine, la signora si scusò. Ecco, il potere dei social è anche questo: mettere a confronto punti di vista, da cui si può sempre imparare qualcosa.”
Eccoci al dunque: il suo lavoro di comunicazione si basa sui social. Il suo profilo Instagram @the_beachdoctor raccoglie migliaia di follower, con cui lei condivide pillole di radiologia e casi clinici. Come è nato il suo profilo?
“The Beach Doctor è nato davvero per caso. Infatti, inizialmente, la mia intenzione era quella di condividere contenuti che parlassero di spiagge ed immersioni, visto che sono anche un sub.Prima di dedicarmi alla senologia, ho lavorato in un ospedale in cui era presente anche un pronto soccorso. Mi è capitato che, nei turni di notte soprattutto, ci fossero dei casi degni di nota. Ho iniziato a parlarne nelle stories e piano piano ho iniziato a raccogliere un pubblico sempre più interessato ai miei contenuti a tema radiologia. Nel giro di poco tempo, ho iniziato a ricevere un feedback positivo, molto spesso da studenti o giovanissimi colleghi, mi fermano per ringraziarmi, come è recentemente successo al congresso SIRM. Per me che sono un timido di natura è una bella soddisfazione, e vivo con grande senso di responsabilità il fatto di star insegnando loro qualcosa. Tutto questo è un grande stimolo anche per me: talvolta chiedo ai miei follower di suggerirmi argomenti e può succedere che mi venga chiesto qualcosa di molto specifico o su cui non ritengo di avere conoscenze adeguate. Ebbene, prima di parlarne faccio ricerche, consulto la letteratura. È un momento di confronto con me stesso, oltre che l’occasione di migliorarmi come professionista”.
I suoi post sono sempre molto precisi ed esplicativi. Ma secondo lei ha senso snocciolare la radiologia in modo da renderla accessibile a tutti?
“Sarò franco: è importante far capire al pubblico che non è impossibile capire la radiologia, ma ciò non significa che i radiologi siano dei cialtroni, perché esistono casi in cui le immagini, anche supportate dall’anamnesi e dalla clinica, sono di difficile interpretazione, non permettendo una diagnosi univoca ed inequivocabile. Per arrivare a formulare una diagnosi, con tutto ciò che ne consegue, c’è bisogno di avere piena padronanza di ciò che si dice e si mette per iscritto.
Poi, per come ho impostato i miei contenuti social, io parlo a un pubblico di addetti ai lavori. Ne consegue che magari do per scontato dei concetti che per me sono di base, ma che chi non ha un background sanitario difficilmente conosce. Questo, tuttavia, mi permette di fare una cernita del mio pubblico: mi segue solo chi qualcosa di medicina ed anatomia ne sa e tanto altro vuole imparare. I social diventano quasi uno strumento didattico”.
I social hanno spalancato le porte del marketing, e qualsiasi argomento diventa occasione per vendere. Cosa ne pensa?
“Penso che ognuno scelga per sé la strada che ritiene più opportuna. I social sono uno strumento di marketing molto forte e non credo sia sbagliato usarli per raggiungere uno scopo. Ciò che mi preme, in termini di salute e medicina, è che talvolta chi parla, e cerca di vendere questo o quel prodotto, dà consigli di salute quando non è un professionista della salute. Ormai i social sono pieni di persone e personaggi che si spacciano per ciò che non sono, venendo magari anche presi ad esempio come esperti dell’argomento che trattano, quando, magari, non hanno una formazione adeguata, o banalmente, neanche una laurea. Questo è un aspetto su cui invito a stare molto attenti”.
C’è un modo giusto di parlare di medicina sui social, secondo lei?
“Sicuramente c’è un modo professionale e uno non professionale, ma non sta neanche a me stabilire la differenza. Faccio un esempio: non sono un grande ammiratore di chi improvvisa balletti su TikTok per parlare, da medico o comunque da professionista, di un certo argomento legato alla professione. Tuttavia, riconosco che chi magari si presta è un professionista, che ha un suo modo di fare, un suo pubblico, un suo scopo, per cui non giudico negativamente questi contenuti.
C’è anche da dire che, con l’esplosione dei social, spesso si valica il confine tra vita privata e professionale. C’è chi porta sui social, magari mosso anche da semplice ironia, contenuti che possono risultare offensivi e ci sono stati diversi casi di cronaca, al riguardo, che hanno comportato reazioni dure, dell’opinione pubblica e dei datori di lavoro, sino anche al licenziamento. Sono errori grossolani, che andrebbero evitati.
Secondo me, siamo arrivati al punto di dover stabilire un codice etico di comportamento sul web e sui social, magari promosso proprio dalla FNOMCeO, in collaborazione con professionisti che già operano sui
social, ed hanno un quadro più chiaro della situazione. Un documento che stabilisca cosa si può fare e cosa non si può fare, una sorta di linea guida. Sarebbe anche uno strumento per difendere i veri professionisti da chi professionista (e professionale) non è.”