A distanza di 2 anni l’antologia sanitaria «Racconti di cura che curano», pensata dalla curatrice, co-autrice e infermiera dell’Ausl di Bologna Silvia Fortunato riscuote ancora un notevole successo non solo nell’ambito sanitario ma anche tra i cittadini. Questa intervista è un viaggio nei racconti e nelle emozioni degli infermieri che faremo insieme a Silvia
Com’è nata l’idea di scrivere quest’antologia sanitaria?
“Una sera, all’inizio della pandemia, in preda alla tristezza per quello che stava accadendo nel nostro Paese, ho scritto un post di rabbia su Facebook. Poi mi sono accorta che non ero stata l’unica a scrivere un post del genere, anzi ero una fra le tante e molti colleghi come me stavano facendo la stessa cosa. Ho iniziato così a leggere tutti questi racconti che mi hanno fatto piangere e mi hanno dato determinazione nel portare avanti l’idea che stava nascendo in me da qualche tempo, ovvero di testimoniare con la scrittura quanto stava accadendo a noi operatori sanitari. Perché non farli leggere anche al resto della popolazione?! Ci stanno considerando eroi adesso, quando stiamo facendo qualcosa che abbiamo sempre fatto. Siamo nel bel mezzo di una pandemia, in un’emergenza sanitaria mondiale che sta facendo riscoprire la nostra professione. Perché allora lasciare che queste testimonianze restino nel dimenticatoio? Nel giro di pochi giorni ho iniziato a selezionare i racconti che mi avevano emozionata. Attraverso uno scambio di notizie su Facebook ho presentato questo progetto che avevo in testa ai colleghi, molti sconosciuti, che si sono dimostrati subito disponibili. Inizialmente volevo destinare la raccolta delle vendite all’acquisto dei Dispositivi di protezione individuale perché in quel momento non c’erano a sufficienza ma poi insieme alla Federazione nazionale dell’Ordine delle Professioni infermieristiche abbiamo creato una campagna solidale di raccolta fondi intitolata “Noi con gli Infermieri” destinata per l’appunto agli infermieri: ho contattato la Presidente e le ho esposto il mio progetto e devo dire che mi hanno subito sostenuta dandomi anche il patrocinio, così come ha fatto anche il presidente del mio Ordine di Bologna. Quest’idea che sembrava irrealizzabile e impraticabile ha trovato sempre più la sua strada grazie a delle persone meravigliose, come anche l’editore Clown Bianco che, appena ha avuto il manoscritto dalla Associazione Canto 31 di cui sono membro, mi hanno sostenuta e incoraggiata poiché hanno con grande senso di solidarietà e hanno accettato di pubblicarci devolvendo la quasi totalità delle vendite a scopo benefico”.
Come potresti descrivere in poche parole questo libro-documentario?
“È un viaggio per scoprire noi stessi e quanto gli infermieri siano capaci di provvedere ai bisogni di cura e come sia stato doloroso gestire quest’emergenza a cui nessuno era preparato, così come alle emozioni affrontate e superate. Racconta le esperienze di tutti, anche di chi non era impegnato in prima linea. Oggi probabilmente scriveremmo le stesse testimonianze con uno sguardo innocente e spaurito o forse saremo più amareggiati e cinici, colti dai sentimenti che si sono susseguiti dopo la pubblicazione. È stato dedicato anche a due colleghe, Daniela di Monza e Silvia di Jesolo, che si tolsero la vita durante i primi mesi della Pandemia perché avevano paura di aver infettato i loro familiari”.
Cosa è cambiato per noi infermieri con il Covid?
“Vorrei ricordare che l’anno 2020 era stato definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come l’anno degli infermieri e mai come in quell’anno la parola “infermiere” è stata letta, detta, scritta ovunque. Ciò ha fatto riaccendere in tanti quell’orgoglio professionale che si era sopito nel corso di un’intera vita professionale, spesso vissuta in sordina. In quel momento più che mai vi è stato un percorso emotivo crescente: più aumentavano i contagi più si chiedeva uno sforzo immane e più eravamo sottoposti ad una pressione mediatica e sociale: eravamo come degli eroi perché eravamo considerati come coloro che dovevano assolvere un nobile ruolo, ovvero salvare delle vite. Siamo una professione che ha un proprio codice deontologico, affamati da anni senza mai un riconoscimento sociale ed economico, determinati nel cercare il nostro posto nel mondo. La pandemia è stata forse la spinta che ha fatto leva nelle persone: finalmente si sono accorti di noi. Abbiamo lottato per arrivare dove siamo arrivati con le giuste competenze avanzate e complesse e con un percorso di studio sempre più specialistico e difficile che non ha niente da invidiare agli altri professionisti. Dopo 2 anni mi sento di dire che il libro acquista maggior valore, forse perché è un’antologia corale in cui non c’è una singola persona che scrive ma 59 autori, di cui 56 sanitari rappresentando tutta la sanità italiana da Nord a Sud, isole comprese.
Cosa rappresenta per te questa opera?
“Racconti di cura che curano è un libro-documentario che testimonierà per sempre quello che è stato il nostro vissuto e se tornassi indietro rifarei la mia parte di curatrice e co-autrice: gli infermieri hanno bisogno di scrivere se vogliono essere riconosciuti, narrando le loro storie che sono sempre di cura. Inoltre, rappresenta una grande rete da Nord a Sud e questo per me è motivo di orgoglio perché vuol dire che sappiamo fare squadra sia tra di noi che con gli altri professionisti”.
Hai partecipato alla Consultazione degli Stati generali delle Professione infermieristica?
“Credo che la Consultazione degli Stati generali della Professione infermieristica sia stata una grande idea perché finalmente si può dare voce a tutti gli infermieri italiani circa l’identità professionale, l’organizzazione e la formazione e poter dare un aiuto concreto a quelle che sono le istanze che porta avanti la Federazione Nazionale. Io personalmente ho partecipato e mi sono focalizzata sull’identità professionale perché sono più di 20 anni che mi batto per questo, in particolare credo che occorra puntare sull’attrattività della professione e ho proposto nel mio contributo di puntare sia sulla comunicazione pubblicitaria per far comprendere ai cittadini la nostra identità sia infondendo finalmente una cultura positiva. È un momento cruciale in cui viene richiesto a tutti noi infermieri di partecipare perché le scelte della politica di oggi avranno ripercussioni nel nostro prossimo futuro”.
Ci sono altri progetti al momento a cui stai lavorando?
“Ho in mente altri progetti editoriali e ritengo che il progetto dell’antologia sia stato pilota per indurre tanti professionisti sanitari a scrivere e a raccontare ciò che vivono ogni giorno. Ho in mente anche altri progetti sia editoriali che di ricerca infermieristica, che è l’ambito in cui mi sono più spesa finora, ma non voglio ancora svelare niente”.
Come immagini l’infermiere del futuro?
“Se penso al futuro che vorrei immagino politiche sanitarie con incentivi alla sanità e dirigenti lungimiranti che lavorino pensando che esista un humus da rendere fecondo, ovvero tutti i professionisti sanitari. Immagino che i nostri giovani colleghi non vadano all’estero cercando un lavoro perché più retribuito. Guardando al futuro spero che esista una maggiore centralità della sanità tra le priorità dei nostri governatori e la possibilità di esercitare con orgoglio la relazione di cura insieme al suo tempo: il tempo trascorso con gli assistiti deve essere riconosciuto e valorizzato anche nelle organizzazioni di lavoro perché il tempo di cura è tempo di maturazione e di crescita. Immagino inoltre un’autonomia infermieristica più territoriale che congiunga gli ospedali al territorio per garantire alla cittadinanza i bisogni che sono sempre più sentiti dalla popolazione che invecchia. Una formazione, infine, che omogenizzi tutto ciò. Un futuro lo vorrei vedere proprio così: la nostra ricchezza e la nostra luce per la cura e l’assistenza finalmente svelate”.