Sars Cov2 si compone di varie fasi e solo in quella finale, fortemente infiammatoria, bisogna intervenire con un corretto supporto ventilatorio non necessariamente invasivo e comunque eseguito da mani esperte. A sostenerlo è Giuseppe Servillo, ordinario di Anestesia responsabile della Rianimazione del Policlinico Federico II.
Professor Servillo come va affrontata la cura dei malati di Sars CoV2?
“Ormai è sempre più chiaro che la patologia si esprime in tre fasi, virologica iniziale, in cui predomina la replicazione e che dura 7-8 giorni e quando è sintomatica è caratterizzata da congiuntivite, febbre, tosse, perdita del gusto e dell’olfatto, mal di gola o manifestazioni gastrointestinali. La seconda, in cui inizia l’infiammazione segnalata dall’alterazione degli indici ematici in cui possono presentarsi bruciori al polmone. Alla Tac emerge un quadro iniziale di polmonite interstiziale bilaterale”.
Fino a questo stadio l’assistenza avviene fuori dalle rianimazioni?
“Si, all’esordio l’assistenza può essere ordinaria e domiciliare, o effettuata in luoghi di quarantena, mentre diventa specialistica, sub intensiva e intensiva nella seconda e terza fase”.
Con quali terapie?
“Alcuni farmaci possono tranquillamente essere maneggiati dal medico di famiglia come la Clorochina, che in rari casi dà effetti collaterali. Si aggiunge uno o due antibiotici per prevenire la superinfezione batterica e l’eparina a basso peso molecolare per contrastare la tendenza trombotica.Sarà necessario monitorare l’evoluzione con prelievi di sangue. L’infezione può essere controllata e fermarsi a questo stadio regredendo o guarendo spontaneamente”.
E nella seconda fase?
“A questo punto il paziente deve andare in ospedale. Compare l’affanno spia della riduzione della saturazione di ossigeno ma la situazione è ancora in equilibrio. Il paziente deve essere aiutato a respirare con una ventilazione non invasiva e stimolato a reclutare autonomamente le parti sane del polmone. Questa polmonite sta rispondendo bene alla ventilazioni a bassi volumi ed alta pressione positiva di fine espirazione. Ma attenzione, non bisogna mai superare la capacità del paziente pena danni peggiori cui è difficile rimediare anche incubandolo. Anche la ventilazione in posizione prona aiuta. Dall’inizio dell’epidemia ho avuto 16 pazienti intubati in condizioni gravissime ne ho estubato 7, 3 trasferiti guariti 3 dimessi”.
Perché posizione prona?
“Perché evita che gli addensamenti comprimano le parti malate del polmone. Sono polmoni che bisogna sapere ventilare perché la ventilazione fatta da mani inesperte accentua il danno polmonare”.
E la rianimazione vera e propria?
“Va riservata solo alla terza fase, pienamente infiammatoria, dove il virus ha completato la sua funzione lesiva, innescato una concatenazione di eventi in cui non c’entra più direttamente il virus e predomina la disregolazione immunitaria caratterizzata dalla produzione di citochine e dal conseguente danno d’organo mediato dal sistema immunitario. I valori ematici dell’infiammazione sono a questo punto profondamente alterati e la respirazione sempre più difficoltosa. Anche in questa situazione, tuttavia, bisogna fare molta attenzione a intubare il paziente. Il respiratore automatico va usato nei tempi gusti, prima che il polmone si chiuda e prima che siano necessari flussi d’aria ad alta pressione che rischiano di minare la funzionalità residua. L’infiammazione deve essere controllata prima che il tessuto spugnoso sia sostituito da tessuto fibroso inerte con farmaci come cortisone e inibitori dell’interleuchina che a volte funziona altre no. Non esistono protocolli miracolosi”.