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Mastoplastica additiva, non solo immagine

Il numero di interventi per mastoplastica additiva è in continuo aumento non solo per ragioni estetiche, ma anche e soprattutto per ragioni ricostruttive in caso di tumore al seno. In ambito di chirurgia oncoplastica, la protesi può essere additiva, se l’intervento al seno è di tipo conservativo, oppure sostitutiva, se si tratta di mastectomia radicale.

Una vasta gamma di protesi mammarie è disponibile sul mercato ed è classificata in base alla presenza di uno o due lumi, al tipo di contenuto e alle caratteristiche della superficie. In particolare, grazie ai progressivi sviluppi dell’involucro esterno e del gel degli impianti protesici, si è passati da protesi di I generazione, introdotte negli anni 60’, a protesi di IV e V generazione, attualmente in uso, che presentano un involucro più resistente ed un gel più coesivo, liscio o ruvido. Le protesi mammarie possono essere posizionate dietro al tessuto ghiandolare, sotto il muscolo pettorale maggiore o in un piano ibrido retropettorale e retroghiandolare, utilizzando un’incisione periareolare, nel solco sottomammario o ascellare.

I potenziali rischi legati all’intervento di protesi sono quelli correlati all’atto chirurgico: infezioni, infiammazioni, ematomi, necrosi cutanea, ritardata guarigione della ferita e quelli legati al fatto che la protesi è percepita come un corpo estraneo e quindi viene isolata, come normale risposta fisiologica del nostro organimo, tramite una capsula, una pellicola che delimita e racchiude la protesi. Questa capsula può restringersi intorno alla protesi e contrarsi. La contrazione può deformare la sagoma della protesi e quindi la forma del seno; inoltre può indurirsi e causare dolore. Tale complicanza è chiamata contrattura capsulare e la sua frequenza è correlata alle caratteristiche della superficie delle protesi: le superfici testurizzate e rivestite in poliuretano hanno meno rischi di contrattura capsulare. Talvolta, la presenza di elevata contrattura può rendere difficile la palpazione della protesi e la valutazione clinica della sua integrità.

Un altro tipo di complicanza può essere l’usura, definito anche gel bleed, ovvero la semplice presenza di trasudazione di silicone all’esterno della protesi attraverso una superficie intatta. La rottura dell’impianto, invece, può verificarsi a causa del normale invecchiamento dell’impianto o da trauma per eccessiva pressione sul torace. La diagnosi di contrattura è clinica, suggerita dalla sintomatologia della paziente. L’incidenza della rottura protesica varia secondo il tipo e la generazione della protesi. In uno studio del 2013, l’esame dei dati forniti da due case produttrici di protesi mammarie ha messo in evidenza il fatto che la rottura di protesi in silicone è stata causata da danni dovuti a strumenti chirurgici usati durante l’intervento chirurgico iniziale, dal 51 al 64% dei casi.

Nel caso di rottura, la protesi va rimossa. Dopo rimozione, alcune protesi potrebbero, all’esame ispettivo, sembrare integre ma quando vengono sottoposte a compressione generano fuoriuscita di gel di silicone. In altri casi, le protesi appaiono completamente disintegrate con perdita del contenuto. La fuoriuscita di silicone nei tessuti molli può dare accumuli di silicone che si integrano nei tessuti molli o nel pettorale e di difficile rimozione anche durante l’intervento di sostituzione protesica. La maggior parte delle rotture risulta silente dal punto di vista clinico ed il sospetto di rottura protesica è dato dalla mutazione nella forma, volume e consistenza della mammella, arrossamento, contrattura capsulare, noduli palpabili o dolore mammario riferiti dalla paziente. In tal caso, per confermare il sospetto di rottura protesica, è necessario eseguire esami diagnostici. Proprio sotto l’aspetto dell’approccio diagnostico, ci sono cose molto importanti di cui dovrebbero essere informate le donne con protesi mammarie: tanto raccomandano le Linee Guida Europee.

La mammografia, grazie alla sua elevata sensibilità, rappresenta il gold standard per la diagnosi precoce del carcinoma mammario, ma, ad esempio, nelle donne sottoposte a mastoplastica additiva bilaterale, l’elevata radiopacità delle protesi può occultare parte del tessuto mammario e comunque impedirne una compressione uniforme, riducendo la qualità delle immagini mammografiche. Dopo mastectomia, può essere valutato solo il grasso sottocutaneo e la cute che ricoprono le protesi, mentre il rimanente viene oscurato dalla radiopacità dell’impianto. L’uso della mammografia, in questi casi, è da valutare di volta in volta, in base alla quantità di residuo di tessuto retroareolare ed al rischio individuale della paziente. Nel caso di mastectomia sottocutanea unilaterale e ricostruzione con impianto protesico, non è necessario eseguire la mammografia di quel lato poiché si suppone che il tessuto mammario sia stato rimosso.

Eventuali recidive che si possono sviluppare sulla cute o nel sottocute, di solito, sono identificate con l’esame clinico. Invece, la mammella controlaterale alla mastectomia viene sottoposta a screening come di consueto con cadenza quasi sempre annuale in tutte le fasce di età. Inoltre, la mammografia non ha indicazione per la valutazione della integrità protesica essendo la sua sensibilità per la diagnosi di rottura molto bassa e pari al 11- 69%; ma rimane l’esame cardine per lo screening del tumore mammario e va consigliata anche nelle donne portatrici di protesi. L’esame mammografico può dimostrare una rottura extracapsulare, ma se il dubbio è quella di una rottura intracapsulare è necessario affidarsi alle altre due metodiche, ecografia come primo livello e risonanza della mammella come approfondimento. Non vi sono prove del fatto che la adeguata compressione durante un esame mammografico abbia mai rotto un impianto e che ciò sia improbabile.

Dopo un intervento di chirurgia oncoplastica con ricostruzione immediata e posizionamento di protesi additiva o sostitutiva può essere comunque necessario sottoporre la paziente al trattamento con radioterapia sulla parete toracica e protesi. Non esistono in letteratura sufficienti informazioni riguardanti la prevenzione ed il trattamento degli effetti collaterali da radioterapia sulle protesi mammarie. L’unico dato certo è quello che le pazienti con protesi mammarie sottoposte a radioterapia devono essere sottoposte ad un lungo follow up per la valutazione in termini di ripresa di malattia e degli effetti collaterali, visto il possibile aumento percentuale di questi ultimi nel tempo. È comunque sempre necessaria un’adeguata discussione preoperatoria multidisciplinare che coinvolga attivamente la donna, per consentire la migliore integrazione del trattamento radiante con i vari approcci ricostruttivi e ridurre gli effetti collaterali.

Dato l’uso diffuso di protesi mammarie, sia per scopi ricostruttivi che estetici, c’è un aumento anche della consapevolezza del rischio di sviluppare un linfoma anaplastico associato a protesi mammaria. In Italia il Ministero della Salute stima un’incidenza nazionale di 3 casi per 100.000. Questo aspetto, come quelli appena descritti e molti altri più specifici sono stati al centro di un recente evento formativo organizzato da AITeRS, l’ Associazione Italiana dei Tecnici di Radiologia in senologia. Durante l’evento è stato ripreso e affrontato, in particolare, l’approccio diagnostico nelle donne con protesi mammarie secondo quanto riportato nel documento promosso da un gruppo di lavoro di esperti in senologia per Senonetwork, il progetto nato a Firenze nel 2012 che ha lo scopo di promuovere il trattamento della patologia della mammella in Italia, in centri dedicati che rispettino i requisiti europei per offrire a tutte le donne pari opportunità di cura.
“Approccio diagnostico nelle donne con protesi mammarie”
www.aiters.it/wp-content/uploads/2020/05/Focus_on_PROTESI_2021_formattato-5.pdf.

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