I numeri primi simbolicamente ci portano con la mente a un’ idea di solitudine, forse perché sono numeri scomponibili solo con numeri identici e che non hanno connessioni con altri che non siano numeri equivalenti o con lo zero.
Nel corso degli ultimi anni, anche per le influenze mediatiche e a una letteratura scientifica di ampio raggio, si è prestata maggiore attenzione a un approccio di presa in carico e al relativo percorso diagnostico, terapeutico e riabilitativo della persona assistita, mirata a coniugare competenze tecniche a quelle invece definite come soft skill, classificandole come un’ arma irrinunciabile al servizio dei professionisti sanitari.
La situazione attuale in sanità è talmente visibile, che chiudere gli occhi o voltarsi dall’altra parte è quasi impossibile: abbiamo una sanità di professionisti al collasso.
Le motivazioni?
Forse perché è più comodo parlare solo dei risvolti economici non premianti, di contratti riaggiornati ma già obsoleti, di carichi di lavoro ingestibili o di aggressioni continue che, in onestà, demotivano l’intero sistema.
Inutile è anche parlare delle dimissioni del personale, al momento tabù per grande parte delle professioni in ambito sanitario (numeri troppo specifici e dati riferiti a poche professioni), superfluo poi sembrerebbe analizzare le azioni messe in atto prima nella pandemia e subito dopo nella fase post pandemica, della quale sono ancora poco chiare le vie di uscita ipotizzate dalla politica sanitaria nazionale.
Per riformare il sistema oggi l’ imperativo categorico è trovare la chiave per la valorizzazione e la formazione del personale con piani dedicati e perché no, anche coniando nuovi termini andropedagocici come “Bisogni formativi individuali ”.
E allora proprio in questa prospettiva siamo chiamati a ragionare su fatti quali la proroga annunciata negli ultimi giorni del 2022 in materia di educazione continua in medicina al termine del triennio formativo obbligatorio, la mancanza di un modello di sviluppo multi ed interdisciplinare sostanziale e specifico soprattutto canalizzato alle persone, ai professionisti, all’utilizzo delle tecnologie e allo sviluppo delle abilità sopracitate.
Perché se è ormai chiaro che soft skill sono le più richieste è altrettanto vero che le relative acquisizioni richiedono investimenti corposi in termini economici e di grande ricaduta soprattutto a livello aziendale.
I recenti rapporti sanitari come quello di CREA sanità presentato il 25 gennaio u.s. consegnano un quadro di grande vulnerabilità e in questo scenario la politica è chiamata in causa al fine di individuare misure correttive e strategiche in grado di proteggere e salvaguardare un patrimonio inestimabile che risiede nei professionisti della salute, innanzitutto come persone.
Allora la domanda che sempre più frequentemente ci si pone nei modelli di formazione e gestione delle risorse umane in sanità è:
“Come garantire lo sviluppo delle soft skill e quanto queste siano spendibili nelle realtà lavorative?”
Discutendo di processi e per alcune analogie, proviamo ad immaginare al mondo del marketing delle multinazionali che ha un chiaro killer point, ovvero un semplice indicatore ma di grande e fondamentale utilità che è quello della customer care satisfaction; quest’ultima in grado di definire i trend di vendita, i parametri di miglioramento e la conseguente “inevitabile”valutazione del personale.
Ma quindi per valutare basta così poco? Anche in sanità? Si può immaginare che in questo contesto non si preveda un’identificazione di indicatori che orienti verso la soddisfazione anche per gli operatori.
La risposta dovrebbe e deve essere no.
I recenti fatti di cronaca imputano ai singoli professionisti (poco sottolineando le colpe del sistema) la mancanza di interventi nella gestione ad esempio dei punti nascita.
Non è forse doveroso capire anche cosa succede nell’altro lato del sistema? Il rapporto tra numero di posti letto e professionisti, il rapporto di turni effettuati e le continue richieste di straordinario e/o copertura per la carenza di personale.
Se vogliamo poi ricollegarci al nodo cruciale della formazione, quanti di questi professionisti hanno mai usufruito di corsi formativi, ad esempio specifici, sul tanto ultimamente nominato rooming-in? Quanti di loro si sono formati o hanno avuto la possibilità di formarsi realmente?
Allora sembra ironico che in un sistema di formazione obbligatorio oltre che sanzionatorio è possibile concedere deroghe, in un sistema nel quale è richiesto stipulare assicurazioni professionali è lecito non garantire la formazione in egual modo a tutti, ma ancora più curioso è consentire la “non motivazione” a una formazione mirata alle abilità di gestione dei conflitti, di comunicazione, di team building etc.
Senza voler sembrare critici è chiaro che sono innumerevoli le possibilità che rispondono a queste necessità in termini di competenze tecniche, diversi i piani formativi aziendali o numerosi i progetti di empowerment professionale, ma quanti di questi rispecchiano veramente l’acquisizione reale delle competenze relazionali, comunicative o di sicurezza delle cure?
In un panorama orientato alla telemedicina, alla sanità digitale come sarà possibile costruire modelli di televisita o di teleconsulto senza sviluppare anche queste competenze? Come sarà possibile ipotizzare modelli di efficienza, di efficacia o tendenti alla riduzione degli eventi avversi, spesso, anzi sempre più legati a criticità comunicativo-relazionali.
È quindi da capire come ai professionisti, prima interfaccia, possa essere richiesto un cambiamento così radicale senza aver costruito fondamenta solide nel sistema salute caratterizzato da un open access di informazioni sempre più fruibile, che inevitabilmente consentirà la possibilità di valutare non unicamente gli interventi sanitari ma ancor di più quelli umani.
Se la vera sfida che si pongono le organizzazioni è quella di un modello di engagement orientato all’umanizzazione delle cure e alla costruzione di gruppi di lavoro multiprofessionali, non dobbiamo aver di certo paura di come agiremo alla crisi in termini di quantità, ma quanto il diritto di erogare una sanità di qualità sia in primis orientato al benessere organizzativo lavorativo degli operatori.
Ad oggi senza il minimo dubbio questa sarà la vera ed unica mission del SSN, eliminare la solitudine che insiste nei e tra i professionisti, in un sistema che da eroi li ha trasformati in numeri primi.