Sintomi gastrointestinali per diversi mesi dopo l’infezione acuta depongono per una forma di espressione e localizzazione di Sars-Cov-2 a livello della mucosa intestinale dove la patologia a prescindere da altri sintomi a carico di altri organi e apparati si può palesare come un addome acuto o peritonite in alcuni casi in cui l’enterite dia luogo a una perforazione della mucosa. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su Med e di cui si sta occupando Franco Bonaguro, primario emerito di virologia dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli e presidente per l’Italia di Gvn (Global virus network).
“Nella pratica clinica, sin dalle prime ondate, abbiamo avuto un gruppo di pazienti – avverte Bonaguro – in cui l’espressione clinica del Covid avveniva con una localizzazione prevalente a carico dell’apparato gastroenterico. Che il virus fosse presente nelle feci del resto, anche a distanza di tempo prima e dopo l’emersione dei sintomi dell’infezione, è stato chiaro da quando, anche in Italia, l’Istituto superiore di Sanità, dopo le prime esperienze a Parigi, ha esteso un progetto per il monitoraggio epidemiologico in grado di valutare l’estensione dell’infezione attraverso l’analisi in Pcr (ossia estrazione dell’Rna virale) nelle acque fognarie. Uno strumento di monitoraggio in grado anche di anticipare le nuove ondate epidemiche”.
Ebbene, questa localizzazione intestinale di Sars-Cov-2 è diventata di recente prevalente con le varianti Omicron del virus che, come è noto, non provocano quasi più polmoniti interstiziali come nelle prime ondate ma si localizzano invece, prevalentemente alle alte vie respiratorie e, appunto, lungo l’apparato gastrointestinale. Sintomi che in quest’ultimo caso possono trascinarsi cronicamente per mesi configurando una delle forme più comuni di long Covid oppure evolvere in forme acute che agganciandosi e disturbi infiammatori pre-esintenti possono evolvere anche in una appendicite acuta, in un addome acuto e addirittura in perforazione e peritonite che non sempre sono correttamente inquadrate e ascritte alle conseguenze del Covid.
L’Rna di Sars-CoV-2 viene rilevato in questi casi in campioni respiratori e anche fecali e studi recenti dimostrano che la replicazione virale sia presente sia nel tessuto respiratorio che intestinale. Sebbene si sappia molto sull’eliminazione precoce dell’Rna fecale, si sa poco sull’eliminazione a lungo termine, specialmente in quelli con Covid-19 lieve. Inoltre, la maggior parte dei rapporti sull’eliminazione dell’Rna fecale non correla questi risultati con i sintomi gastrointestinali.
Nello studio pubblicato su Med è stata analizzata la dinamica dello spargimento di Rna fecale fino a 10 mesi dopo la diagnosi di Covid-19 in 113 individui con malattia da lieve a moderata. Correlato anche lo spargimento con i sintomi della malattia. Ebbene l’Rna nelle feci viene rilevato nel 49,2% [intervallo di confidenza al 95%, 38,2%-60,3%] dei partecipanti entro la prima settimana dopo la diagnosi. Considerando che non vi era alcuna perdita di Rna orofaringea in corso nei soggetti a 4 mesi, il 12,7% [8,5%-18,4%] dei partecipanti ha continuato a perdere Rna SARS-CoV-2 nelle feci a 4 mesi dopo la diagnosi e il 3,8% [2,0%-7,3%] fino a 7 mesi dopo. Infine è ben chiaro e intuitivo che i sintomi gastrointestinali (dolore addominale, nausea, vomito) sono strettamente associati allo spargimento fecale dell’RNA SARS-CoV-2.
In conclusione l’estesa presenza del genoma di Sars-Cov-2 nelle feci, ma non nei campioni respiratori, insieme all’associazione della diffusione dell’Rna virale fecale con i sintomi gastrointestinali suggeriscono che SARS-CoV-2 infetta il tratto gastrointestinale e che questa infezione possa essere prolungata in un sottoinsieme delle persone con COVID-19 con una difficoltà in più che risiede nel fatto che i tamponi respiratori in questi caso danno un esito negativo sottostimando la diagnosi e riducendo la possibilità di intervento terapueutico al solo aspetto clinico di pertinenza gastroenterologica.